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Recensione di Maria Cavallo
GLI ULTIMI SARANNO I PRIMI (…e io, speriamo che me la cavo!)
Ho letto questo “libello” appena è stato pubblicato e, contrariamente al solito, ho continuato a procrastinare le poche righe che dedico sempre, per stima, affetto e sincero interesse, alle opere di Martino Sgobba.
Perché? Perché “Gli ultimi saranno i primi” è una lettura che fa male, soprattutto per chi si muove quotidianamente nei santuari ormai sconsacrati della scuola avvertendone, sempre e comunque, la santità.
E mentre, per altre ragioni, mi trovo a leggere di visioni profetiche, dogmi e Trinità, mi ritornano in mente questo e altri misteri della fede attraverso cui Martino Sgobba tenta, riuscendoci magistralmente, di “non spiegare” i paradossi della scuola, non per espressa volontà, ma perché l’indagine delle cause e delle ragioni di certi fenomeni si arresta e sfugge a ogni possibile ermeneutica e non resta altro che prenderne atto e arrendersi di fronte alla realtà.
E’ un universo capovolto quello descritto in queste 9 “edicole votive”, tanto per corrispondere all’eresia linguistica dell’autore, dove l’assenteismo diventa una dote, la scarsa formazione culturale un requisito, l'etica e la deontologia solo pastoie. Un rovesciamento a imbuto di impronta dantesca ma senza alcun esplicito avvertimento di perdizione, al contrario, con la promessa fraudolenta che “gli ultimi saranno i primi”. E che sia un ex dirigente a farcela la considero una circostanza aggravante non per l’accusatore ma per gli accusati.
Lo spazio dominante della narrazione è un labirinto di strade secondarie, vicoli ciechi, fosche traverse, incroci bui e grigie scorciatoie, che assumono significati figurati cui aderiscono i nomi-presagio che li abitano e li percorrono: la Dirigente Gloria Vandala, il preside Prono e il preside Verticale, don Faccenda, il signor Agganciato, gli alunni Scianella, Cropulo, Squillante, Gramigna e tantissimi altri, fino a confluire in una “innatural” burella, quella sgranata nei 15 misteri del “Santo Rosario” e che ci precipita in un ubi pessimus peior cessat!
Eppure, proprio attraverso questo viaggio grottesco ma profetico è possibile prendere consapevolezza dell’urgenza di teorie e prassi soteriologiche, non solo in materia di educazione, perché sarebbe riduttivo considerare questa raccolta di racconti solo un libro sulla scuola; in verità, è un libro che assume la scuola come exemplum e ne fa uno speculum temporum.
C’è poi un’ironia amara che scorre in queste pagine, che contribuisce ad inasprirne la digestione e che non risparmia nessuno, neanche gli studenti, che a loro modo e nel loro mondo sono espressione di un’unica teologia, quella della de-formazione e
d-istruzione.
Nonostante tutto, però, con la sua straordinaria abilità linguistica Martino Sgobba ci costringe molto spesso, durante la lettura, al sorriso e al riso, confermando le indiscusse doti di scrittore, e ribadisco il termine “scrittore” oggi forse abusato: tanti scrivono, ma pochi sanno incidere davvero con lo stilo, con un proprio stile, che connota e definisce i contorni di una inconfondibile identità.
Forse dovremmo proprio partire da questi aspetti per imparare a riconoscere e a distinguere, nel vasto panorama editoriale, gli affabulatori, gli avventurieri e i trafficanti della scrittura e della cultura.
Scrivere è prima tutto dominio del mezzo espressivo: è scelta dei termini appropriati, accostamento sapiente delle categorie grammaticali, pittura verbale di immagini e situazioni inequivocabili e allo stesso tempo capaci di amplificarsi per intercettare l’universo personale di ogni lettore. Solo così il contenuto aderisce al pensiero, riproduce la realtà e restituisce significati, anche quelli più tossici.
E se poi, come in questo caso, si aggiungono acrobazie semantiche e virtuosismi che vanno oltre l’esercizio retorico, forse è anche merito di quella scuola che non faceva sconti né miracoli.
“Gli ultimi saranno i primi” è forse politically incorrect, ma si sa, solo le visioni apocalittiche possono aprire gli spazi di una nuova concordia ordinum.
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