"La collina dei treni"
Recensione di Antonia Bellafronte
Marta era una macchia grigia, la vita le scorreva vicina, estranea nella propria casa, come Lorenzo, don Paolo, Carlo, Sabino, anime fragili aggrappate ad altrettanto labili punti di riferimento; tutti vivono, però, in un territorio che offre loro uno sguardo aperto, luminoso, potente e dirimente: il cielo, il mare, il vento, il sole, le distese di imponenti alberi, il rigore degli orti.
Questo paesaggio, se osservato dalla collina, di notte, appare simile ad una volta celeste rovesciata che nasconde, cela al suo interno eserciti silenziosi di mandorli e ulivi a protezione di un territorio che non può e non vuole rivelarsi; allo stesso modo l’anima dei protagonisti, appare chiusa, buia e imperscrutabile.
La visita in collina consente però a Marta, ultima arrivata, di intravedere un cambiamento di prospettiva, di scorgere le cose da un altro punto di vista, di riconsiderare le proprie convinzioni e anche le proprie ipocrisie, in buona sostanza di cominciare una operazione di disvelamento di sé. Marta osserva dei treni scivolare sui binari, immagina che quei vagoni trascinino le storie dei passeggeri che trasportano. Comprende che, allo stesso modo, può lasciare andare una parte di sé nonostante sia abbastanza stratificata da impedirle di esprimersi autenticamente.
Marta riceve da parte di Lorenzo, per la prima volta, dopo tanti anni, delicato ascolto e attenzione discreta che cominciano a creare una piccola crepa al forziere della sua identità, alle emozioni per troppo tempo sopite e soffocate.
Questo le consente di cominciare ad aprire la porta della sua stanza segreta, di diventare più leggera sentendosi protetta, custodita, incoraggiata, e da quello spiraglio avere la possibilità di ricevere e donare affetto, cura, attenzione, cortesia, che poi sono il motore della vita.
Scopre dunque che basta individuare un luogo e un momento per mettere a confronto i propri pensieri con quelli altrui, vincere la timidezza per conversare con parole vive e non guardinghe, aprirsi al dialogo, comprendersi, appaiarsi.
A Marta viene data la possibilità di rifiorire, grazie a nuove opportunità che le vengono offerte da Lorenzo e Paolo: ma cosa muove il loro altruismo, la loro volontà di aiutare il prossimo, la loro missione? Ci illumina Sabino che individua nel senso di colpa la virtù del peccato, cioè nell’operare per il prossimo, così alacremente, da parte di Lorenzo e don Paolo, alberga il seme del peccato, che generando senso di colpa, attiva gesti riparativi e induce ad espiarlo con opere altruistiche.
Inoltre questo senso di colpa non abbandona mai Lorenzo, Paolo, e neppure Sabino, tanto da non riuscire a staccarsene e ad agire indipendentemente da esso: i loro pensieri sono costantemente abitati da ingombranti presenze. In Sabino addirittura diventerà rimorso sino a generare dolorose forme di autopunizione.
Qui il senso di colpa avrà il potere di influire notevolmente sulle vite e sulle scelte, i fantasmi del passato non abbandonano, ma piuttosto guidano e direzionano i percorsi.
Tornare sulla collina dei treni per Lorenzo e per Paolo significa aver individuato un angolo di osservazione privilegiato, ma soprattutto per Marta, rappresenta la possibilità di guardare con maggiore oggettività alla propria esistenza e di lasciare andare quello che costituisce un peso gravoso per la propria quotidianità. Con ogni visita alla collina, e con ogni treno che vede scorrere sui binari, Marta lascia andare una parte di sé che non le consente di essere libera, che non le permette di vivere pienamente la propria vita, sino a giungere ad aiutare Lorenzo a liberarsi di gravosi retaggi che lo portano ad essere continuamente sospeso, tra passato e presente, tra ricordi ed evasione.
Marta grazie a Lorenzo matura, esce dalla zona d’ombra, acquisisce sicurezza, arriva ad essere pronta a sopportare il giudizio altrui e a mettersi a nudo, a mettere se stessa al primo posto e dunque ad avere voglia di soddisfare i propri desideri; finalmente comprende il valore delle relazioni e la conseguente sicurezza generata dalla fiducia nelle proprie e nelle altrui possibilità.
Lo stile espressivo di Martino Sgobba, in costante ricerca della perfezione della lingua, risponde ad una vera e propria necessità speculativa, e d’altra parte non poteva essere altrimenti! Il linguaggio contribuisce a creare la storia, e viceversa ogni accadimento viene descritto con il linguaggio che meglio ne definisce le atmosfere. Non mancano elementi di pungente ironia, ma anche un massiccio utilizzo di tecniche espressive, accorgimenti stilistici che conferiscono efficacia e forza al romanzo.
Sono sicura che le strade che percorrerà questo libro saranno molteplici e sfaccettate e le anime che incontrerà saranno profonde e sensibili, proprio come i suoi personaggi.
