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La collina dei treni
Recensione di Maria Cavallo

«Ci siamo persi tutti!»

 

Forse per questo è difficile individuare nell’ultimo romanzo di Martino Sgobba, La collina dei treni, un vero protagonista. E quando Paolo, uno dei personaggi principali, dichiara questa condizione, a se stesso in primis, ogni sillaba sembra prendere corpo e risuonare nella cassa toracica del lettore.

Sì, perché Paolo è anche don Paolo, un prete, che della perdizione e dello spaesamento esistenziale dovrebbe avere l’antidoto. Eppure, insieme a Lorenzo, Sabino, Marta e Carlo, declina, anche lui, la sua solitudine su traiettorie a volte geometriche a volte tortuose e disarticolate, che siano quelle delle vie di Bari e dintorni o quelle del reticolato interiore che aggroviglia sensi di colpa, rimorsi ed equilibri precari.

Paolo, Lorenzo e Sabino sono tre amici legati da una gioventù condivisa tra i banchi di scuola e rimasta crocifissa al dolore della perdita di Lucia, sorella di Sabino, il più debole dei tre, perché soggetto a un “processo di consunzione” sfociato in disturbo psichico. Per lui e verso di lui, Paolo e Lorenzo, chirurgo affermato, si specializzano nella cura delle anime e dei corpi, perché “il senso di colpa è la virtù del peccato” e chiede sempre un risarcimento.

E anima e corpo è anche Marta, che entrambi accolgono e aiutano a uscire dalla macchia grigia di un’esistenza schiacciata dal cumulo immobile dei suoi anni e dall’appassimento dei tratti fisici che neanche specchi e vetrine riflettono più. A lei il compito, prima, di sorreggere il passo difettato di Carlo - giovane studente a cui presta assistenza - e di supplire alla tensione nodosa delle sue dita spastiche, poi, quello di sorvegliare il vuoto e la disabilità di Sabino, rimasto solo dopo la morte della madre. In questa rete di mutua e reciproca protezione dell’altro, nella quale ognuno cerca la propria assoluzione, c’è la risposta alla mesta costatazione di Paolo: qui si annida la possibilità di non perdersi del tutto o addirittura di ritrovarsi.

E’ quello che avviene soprattutto a Marta, che indosserà gradualmente i colori di una nuova fioritura e riprenderà il viaggio sui binari della vita, come uno di quei treni avvistati dalla collina di Paolo e Lorenzo: la collina dei treni, appunto, luogo prospettico privilegiato per la contemplazione estetica del paesaggio naturale e per l’osservazione dall’alto del mondo in cui le vite dei personaggi si intersecano e la cui distanza dilata l’orizzonte del senso e delle aspettative, ridefinendo anche i confini più angusti.

I luoghi di questo romanzo, infatti, non sono mai solo uno sfondo, ma soggetti narrativi a tutti gli effetti, indispensabili a completare il ritratto dei personaggi e a istaurare con loro una costante dialettica che esprime attesa, compassione, risentimento, come quelle stanze che provano inquietudine, che vorrebbero ma non possono soccorrere, o le case che si illudono di lenire ferite. Allo stesso modo, la chiesa, l’ospedale, il carcere non sono altro che l’oggettivazione della condizione esistenziale di Paolo, Lorenzo e Marta.

Così, La collina dei treni si risolve in un romanzo sulla cura, quanto mai necessario in questo tempo affollato da un soggettivismo isolato e monologico. In una società della prestazione che non ha nulla di veramente civilizzante, dove anche l’eccesso di positività, sanità e successo esprime la sua violenza, Sgobba ci offre una narrazione sobria e delicata, che non urla clamore di gesti o superomismi, ma si muove in un universo in cui proprio la genuinità dei deragliamenti costringe alla riflessione più acuta sull’animo umano. Al lettore non resta che scegliere se fermarsi alla superficie e alla semplicità della lettura o addentrarsi nella complessità delle interpretazioni. Sono queste le possibilità che da sempre caratterizzano la scrittura di Sgobba e il suo personalissimo stile, che non sa adeguarsi alla banalità dell’espressione e che ricerca, nella vertigine del dettaglio, tra precisione e indeterminatezza, ironia e amarezza, reificazioni e umanizzazioni, non la perfezione estetica ma un modo di decifrare la realtà proprio nelle sue imperfezioni, nelle sue avarie.

Anche questo lo rende un romanzo sulla cura che, come l’amicizia, ha bisogno di parole e gesti espliciti per dichiararsi, perché è attraverso la cura che cambiano i tramonti, da quello atteso, in prima pagina, da Marta, necessario per concludere al più presto un’altra giornata di tristezze, a quello che si adagia nelle ultime righe per ricomporre le carte scompigliate e annunciare la marcia di una nuova alba. E’ in questo andare oltre se stessi che si ha accesso all’altro, viceversa, è attraverso l’altro che matura la consapevolezza di sé.

Solo così, per dirla con Sgobba, ci è possibile deludere ed eludere i nostri demoni.

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