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La collina dei treni
Recensione di Elisabetta Intini
 

Marta, protagonista -ma forse non personaggio principale- di questo romanzo, compare nelle prime pagine, bloccata nel grigiore di una solitudine profonda e rassegnata. Sembra percepire la sua esistenza come ineluttabilmente priva di senso.
Coprotagonisti delle sue vicende sono Lorenzo e Paolo, due amici il cui legame si alimenta di un lontano trauma, da cui è scaturito un senso di colpa sublimato nella totale dedizione agli altri in generale e a Sabino in particolare, personaggio complesso e enigmatico, la cui esistenza è nello stesso tempo chiave interpretativa e punto di raccordo tra le direttrici narrative. Con loro agisce anche Carlo, il quale ricava dalla propria disabilità una sensibilità che lo rende leggero e drammatico a un tempo.
L’azione si avvia con un incontro tra Lorenzo e Marta, inizialmente senza che la passività di quest’ultima sia scalfita, ma pian piano, nel corso della narrazione, la giovane donna viene delicatamente imbrigliata in un intreccio di fili, una trama sottile che lega tra loro gli altri personaggi della storia, che si fa rete per lei e la solleva fino a raggiungere una dimensione in cui l’esistenza riprende finalmente a scorrere. La guida cioè verso la superficie.
La superficie è il luogo dell’insensatezza o quello in cui la vita dispiega il suo senso? Questa e altre domande esistenziali si affacciano e rimangono sospese, a testimoniare come ciascuno debba trovare un equilibrio accettabile tra essere, voler essere, dover essere. Ognuno dei personaggi accetta una dose di compromessi senza tuttavia rinunciare alla propria essenza.
La collina dei treni è il luogo in cui le cose possono prendere senso, dove si può cercare “lo schema nel caos” ma è anche il luogo dell’incontro illusorio. Inizio e fine della parte di storia che coinvolge Marta e prosecuzione aperta di quella in cui Paolo e Lorenzo “non mancavano di nulla”.
Il Natale, il Vangelo, il sostegno e la cura per il prossimo sembrano alludere ai valori cristiani, ma sono invece il simbolo laico della umanità tout court che nel messaggio evangelico affonda le radici.
Lo stile è quello caratteristico di Martino Sgobba: accurato, cesellato, limato. Spesso frutto della ricerca di una formula che sia il castone preciso per la parola prescelta. Sempre originale la sua capacità di animare gli oggetti, accreditando ad essi sentimenti e riflessioni che propongono un incisivo ribaltamento del punto di vista sulle cose.
Storia intensa, capace di imbastire catene di riflessioni e di generare qualche domanda a cui trovare risposta solo a lettura conclusa e decantata.

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