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La collina dei treni

Recensione di Sergio D'Onghia

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Sunt aliquid manes: letum non omnia finit - (Properzio, libro 4, elegia 7) -: “Sono qualcosa i fantasmi: la morte non tutto fa finire”. Potrebbe iniziare così, con una una citazione che non sarebbe dispiaciuta al valente latinista Sabino – uno dei personaggi centrali del nuovo romanzo di Martino Sgobba –, questa riflessione su La collina dei treni, un libro che, dopo Un liceo da suicidio (Robin Ed.) e La stanza dei racconti (Giovane Holden Ed.), conferma la qualità del livello narrativo dell’autore e ne dilata gli orizzonti. Lo spirito del trapassato, però, non è quello di Cinzia, la donna amata dall’inconsolabile Properzio, ma quello di Lucia, una giovanissima ragazza, mancata  tragicamente molti anni prima, che si rivela il filo conduttore che lega, col suo incancellabile ricordo, le storie di tre amici di vecchia data: Paolo, Lorenzo e Sabino. Nel loro “triangolo” doloroso – i tre non hanno mai superato il trauma profondo della perdita improvvisa della giovane – viene “inserita” Marta, una donna apparentemente destinata ad un’esistenza appartata, disanimata, «grigia», come si legge nel libro, che diviene, suo malgrado, la protagonista femminile del romanzo. Una presenza “materica”, in carne ed ossa, contrapposta alla figura ideale e “spirituale” di Lucia. L’intera storia si consuma in meno di un anno: dalla fine di settembre agli ultimi giorni di aprile. Non si tratta di una scelta temporale casuale. Dal passaggio del crepuscolo autunnale, attraverso il buio dell’inverno, sino al ritorno della luce ben augurale della primavera, sono, in definitiva, le stagioni che toccheranno il cuore di Marta. Scorreranno con lei in parallelo, in modo del tutto diverso rispetto a quei treni che, alle volte, si incrociano, solo per pochi istanti, per poi perdersi nella lunga notte silenziosa della collina. La metafora del viaggio, e con esso del treno e della stazione, ritornano spesso nell’invenzione letteraria di Sgobba (cfr. Id., Angeli custodi, un racconto compreso nella raccolta Il mare è soltanto acqua, Giovane Holden Ed., 2011, solo per fare un esempio). Questa volta, però, i treni non si prendono (tranne che in una sola circostanza, nelle pagine finali del libro); i treni si guardano (forse sarebbe meglio dire “si spiano”) andare e venire, ma con i piedi ben saldi sulla collina. Il treno come τÏŒπος del viaggio, tanto reale, quanto interiore, resterà fermo su un binario morto: «volevo capire se potevamo viaggiare insieme nello stesso treno, nella stessa carrozza…» dirà Marta a Lorenzo. Non si ha voglia di partire, perché, in fondo in fondo, non si ha voglia di dimenticare. L’intera esistenza di questi personaggi ruota attorno ad una ventina di chilometri quadrati. L’autore non si sottrae alla regola aurea di scrivere di ciò che ben si conosce, perciò i luoghi che fanno da sfondo alle vicende di queste pagine sono legati a Bari e al suo più ampio hinterland. La città fa capolino con i suoi viali, la casa circondariale (altra metafora esistenziale, non meno della “collina”), il Policlinico, La stazione centrale, la circonvallazione e lo stadio, i quartieri degradati, tra il «detrito» degli uomini, «dove più turpe è la vita», per dirla con Saba. Tutto sfila come sotto la lente di un caleidoscopio monocromatico, interrotto – appena – dal rosso coraggioso di una felpa. E se non fosse per la presenza dei cellulari (unica concessione a questo nostro tempo “hi-tech”), il romanzo potrebbe benissimo ambientarsi tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ’80. L’atmosfera che si respira è di amara consapevolezza: il tempo ha congelato in uno schianto la gioventù; quel che resta ancora da vivere è il meglio che rimane, al netto del rimorso per ciò che poteva essere e non è stato; al netto di ogni viltà, di ogni compromesso col mondo e col Padreterno. Per Marta, che non ha un’adolescenza felice da rimpiangere, il futuro, come la primavera, può regalare ancora profumi e colori nuovi. Alla sua domanda «Che cos’è la prudenza?», il suo amico Paolo risponderà «la virtù che ci permette di discernere il bene dal male e quindi ci guida verso la scelta giusta». Quella stessa scelta che, in ultima analisi, ha consentito a Martino Sgobba di regalarci una storia in cui la «superiorità dell’immaginazione» letteraria ci riporta verso una realtà che, in un modo o nell’altro, non possiamo avvertire troppo lontana.

 

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